Di Valerio Calzolaio
Il termine italiano “nomadismo” deriva etimologicamente da varie ascendenze in lingue indoeuropee. In greco si riferiva precisamente alla pastorizia, ai pastori e al pascolo. In arabo “bedu” è beduino, nomade, pastore. Il termine italiano “migrazione” ha altre ascendenze. La radice del migrare affonda nell’andare oltre. Donne e uomini sulla Terra stanno in luoghi diversi, cercano apporto alimentare, talora imparano a trovarlo seguendo gli animali o errando, errano per sopravvivere e riprodursi, talora migrano. Il nomadismo dei raccoglitori cacciatori fa riferimento alla ricerca di alimenti di piccoli gruppi o bande in spazi limitati, più che al cambio di biodiversità (e clima). Gruppi della specie talora migrano di conseguenza, si orientano al nomadismo prima per raccogliere vegetali (e acqua), poi per seguire e cacciare erbivori migratori, via via più consapevoli e orgogliosi di essere liberi di muoversi e di cacciare. Il cacciatore del Paleolitico è più errante che nomade. E il nomadismo è una dinamica evolutiva delle specie umane, soprattutto dei sapiens, identitaria con il Neolitico.
Si tratta di vero e proprio nomadismo pastorale quando è organizzato in funzione del capitale animale, prima prevalentemente sulla base delle attività e dei comportamenti degli animali, poi orientato dagli umani. Il nomadismo dei raccoglitori cacciatori prepara, sperimenta, articola, diversifica l’agricoltura e l’allevamento. I nomadi sono costretti ad adattarsi a maggiori variazioni del clima, dei biomi, della biodiversità. Non tutta la specie umana era nomade prima del Neolitico, cioè consapevolmente coerentemente efficacemente dotata di una tecnica relazionale con luoghi più o meno ampi, con l’ambiente, con il clima, con l’acqua, con la terra. Il nomadismo poteva essere una tecnica di sopravvivenza, talora forzato, occasionale, regressivo. Riguardava alcuni gruppi, in alcuni continenti, in alcuni periodi. Risulta diventare un’identità sociale riconoscibile e consapevole solo lentamente. Migrare era una sequenza progressiva di risposte adattative, una strategia evolutiva di sopravvivenza ed adattamento, all’interno della quale vi poteva anche essere, da un certo momento in poi, l’attività pastorale nomade.
Fra i suggerimenti di lettura della nostra redazione per le recenti festività a cavallo fra il 2023 e il 2024, è stato autorevolmente indicato anche un bellissimo interessante saggio di Anthony Sattin, Nomadi. I popoli in cammino che hanno plasmato le nostre civiltà, Neri Pozza Vicenza2023 (orig. 2022), pag. 425.Opportunamente, l’autore concentra l’attenzione sui millenni del Neolitico, pur non approfondendo la discussione sull’utilizzo del termine e l’esistenza del fenomeno durante i precedenti lunghissimi articolati milioni di anni del Paleolitico. L’ipotesi è chiara e convincente: per la maggior parte degli ultimi dieci mila anni il rapporto tra popolazioni nomadi e popolazioni sedentarie è stato complementare e interdipendente, fortune e crisi intrecciate. Tuttavia noi sedentari ricostruiamo storie e geografie a nostra immagine e somiglianza, meglio esserne consapevoli; ancor meglio risulta studiare e cercare di comprendere come e perché tanti gruppi di sapiens siano sempre restati in movimento anche alla fine dell’ultimo periodo glaciale, preferendo leggerezza di strutture e continui equilibrati adattamenti con gli ecosistemi circostanti.
Una volta eravamo tutti cacciatori e tutti raccoglitori: i primi a smettere di fare l’una e l’altra cosa risalgono a non più di dodicimila anni fa. Il che non significa che prima eravamo tutti nomadi, piuttosto erranti. Sattin ritorna utilmente sull’etimologia: alle radici del termine indoeuropeo nomos vi è il “pascolo”, uno specifico modo di “cacciare”. Poi il termine nomas indicò qualcuno errante in cerca di pascoli. Le tribù pastorali erranti erano sia nomadi che stanziali, una parallela evoluzione si collegò ai cambiamenti climatici strutturali (che resero possibili allevamento e agricoltura) o frequenti (più o meno ciclici o stagionali). Dopo la costruzione dei primi agglomerati urbani e l’insediamento “residenziale” di un gran numero di persone, il termine “nomade” prese a essere utilizzato per indicare genti che vivono senza mura, ossia ai margini dei centri abitati. Oggi noi sedentari lo usiamo in due modi molto diversi, spiega l’autore: con un senso di nostalgia romantica e vagabonda, da una parte; come un carattere di sbandati senza fissa dimora, “sconosciuti” dall’altra parte.